lunedì 8 aprile 2019

Calligrafia

Il pennello scese disegnando una linea curva e sottile, poggiando sulla carta sempre più, come il piede di un cieco che riacquisti sicurezza nel sentire il terreno ancora sotto di lui. Il carattere aveva assunto una certa dimensione ricurva, un poco distorta eppure elegante, fiera di quel proprio difetto che sfoggiava con tanto orgoglio risaltando sul foglio bianco. Il pittore sollevò il legno scostandolo leggermente, osservando la sua opera con un sorriso d’orgoglio tipico degli artisti e di chi si crede tale – un sorriso forse troppo superbo, ma lì, nel suo studio, quando resuscitava vecchi ricordi sulla carta, non doveva certo preoccuparsi di apparire nobile o modesto.
“Dovrei proprio prendere della nuova carta”, mormorò tra se e se. Quella che aveva era quadrettata e un po’ troppo sottile, e ogni volta si pentiva di lasciarla lì così fragile, così instabile, un supporto tanto effimero per un’arte tanto bella. Riprese il tratto, e con delicatezza portò a conclusione in carattere senza imporgli alcuna rigidezza: la rigidezza, in un momento simile, avrebbe rovinato totalmente quell’elegante deformità che era riuscito a imprimere sul suo supporto fragile. Sarebbe stato come una gelata primaverile dopo lo schiudersi delle prime gemme, e avrebbe rischiato di rovinare l’intero raccolto – pardon, l’intero scritto. Con rammarico ripercorse il foglio, soffermandosi sui propri errori e sulle correzioni che vi aveva apportato, il più delle volte peggiorando la situazione. Fortunatamente era ormai prossimo alla fine, e la dimestichezza nell’utilizzo del proprio strumento gli era tornata così, naturalmente, proprio come gli era venuta. Si sentiva quasi rinvigorito, e intinse il pennello nell’inchiostro cercando di non perdere quella meravigliosa sensazione che era ormai giunto ad associare con la creatività.
Nonostante avesse congiunto diversi stili all’interno dell’opera, era soddisfatto dell’armonia che si percepiva nel guardare lo scritto nel suo insieme, senza cercare di leggerlo soffermandosi sui singoli caratteri. Quando anche l’occhio coglieva quei dettagli fondamentali, quelle impronte del linguaggio che non si possono cancellare né dal foglio né dalla mente, e che spesso sono l’unica corda a cui appendersi nel cercare di ricostruire una parola o a volte un’intera poesia, quando anche l’occhio afferrava queste corde risalendo a bordo del significato verbale esso serbava lo stesso un certo odore di mare, di libertà, di un puro getto di espressione. Riprese a scrivere, sentendo aumentare il proprio fervore, e a un punto spesso e largo come un’isola fece seguire linee sottili e intricate come rami, foglie, liane e radici, senza mai disegnare un tronco. Ricordava vagamente di quel poeta che paragonò i caratteri di un suo collega a serpenti e liane che scendevano dai rami di un albero, e fu al contempo fiero e infastidito al pensiero di aver inconsapevolmente seguito le orme della tradizione. Erano finiti i tempi in cui, giovane e pieno d’orgoglio, aveva pensato di rinnovare il metodo stesso dello scrivere, con un vago sentore rivoluzionario che lo spingeva a rifiutare ogni attracco che potesse ricondurlo a una tradizione di qualunque tipo; eppure, ogniqualvolta si rivolgeva al passato, accanto all’orgoglio di studioso si insinuava il pensiero di non essere riuscito a esprimere pienamente la sua originalità, di essere sceso a un compromesso, di aver tradito il suo pensiero originario per un semplice capriccio estetico.
“Eppure è così sottile...” tornò a mormorare, non sapendo bene se si stava riferendo alla traccia lasciata nel suo lavoro dagli autori passati o alla linea che era tornato a tracciare, seguendo il corso del pennello senza più badare alla forma, sfogando i suoi pensieri sulla carta ed esprimendoli con l’inchiostro. Era il pennello a guidarlo, ormai, non più il suo intelletto, e fu quindi fiero di vedere in se stesso i maestri del passato, come stessero rivivendo attraverso di lui, resuscitati dalla sua opera; li avrebbe messi in vetrina, ammirati e fatti ammirare, oppure li avrebbe lasciati liberi di ammuffire tra le sue centinaia di opere eseguite e mai più riprese? Ogni tanto si chiedeva che farne di tanta carta, di tanta arte – che pure di arte si trattava, salvo rare occasioni – ma infine tornava a girovagare con il pensiero perdendosi per strade già percorse, esplorando gli infimi dettagli mai notati di un’espressione, o di un sentimento, o anche di un oggetto che si trovava davanti. Solitamente concludeva questi suoi viaggi riprendendo in mano carta e pennello, e aggiungendo altra carta ai cumuli in costante crescita impilati sulla sua scrivania, oppure andando a scovare un libro in cui potersi perdere ancora di più, nascondendosi tra i meandri delle pagine infinite e godendo della rara libertà delle parole.
“Carneade! Chi era costui?” stavolta il fervore ritornò come un’onda, prendendo il sopravvento e manifestandosi in tutta la sua forza in questa citazione-esclamazione. Riprese con vigore a scrivere, muovendosi di getto nel tracciare in un’unica linea i tre caratteri successivi, e quando infine il pennello corse al di fuori del foglio lanciandosi di lato in uno scatto improvviso rimase fermo ad ammirare la sua opera ormai conclusa. L’ultima linea, nel suo iniziale splendore, aveva lasciato dei minuscoli punti bianchi, scoprendo al di sotto di sé la nudità della carta che doveva restare al di fuori del tratto; e quei minuscoli punti, che pure si potevano apprezzare nel loro isolamento e nella loro unicità, si erano poi trascinati con l’avanzare del pennello, affondando e riemergendo dall’inchiostro di continuo come un nuotatore in procinto di affogare, allungandosi e distorcendosi in linee e in spazi bianchi che si conquistavano sempre più spazio nel nero della scritta, dibattendosi e contorcendosi senza mai rinunciare al loro diritto di esistere, di palesarsi lì in mezzo all’inchiostro, di mostrare la carta in tutta la sua nudità.
Si chinò all’indietro raccogliendo il foglio e posandosi una mano sulla fronte aggrottata. Il risultato non era dei migliori. C’era, sì, una certa leggerezza, quasi un volo d’uccello seguito sia dal nero della scritta che dal bianco che lo accompagnava, ma era forse esagerato, e rischiava troppo di confondersi con il candore dilagante sul resto del foglio. Arricciò le labbra in una smorfia, riconoscendo il suo errore nell’essersi dimenticato di intingere nuovamente il pennello nell’inchiostro prima di tracciare l’ultima linea. Un peccato: un lavoro tanto accurato ed elegante, rovinato proprio nella sua chiusura. Sconsolato, spostò lo sguardo dalle macchie ancora lucide dell’inchiostro che terminava di asciugarsi alle pile di carta sulla scrivania, incerto sul fato di questa sua ultima opera. Poi, sospirando, lasciò che il foglio cadesse di lato, ondeggiando graziosamente nell’aria fino a cadere tra le braci ancora fumanti del suo camino, e uscì infine a prendere un po' d'aria in terrazza.

lunedì 3 aprile 2017

Dedicato a un fiore

Alto nel cielo scuro e pieno
di nubi maestose, sospeso
tra vortici d’aria, alieno
agli stormi frementi, nel sol,
dei suoi simili minacciosi
immobili solo perché son
trattenuti da misteriosi
poteri: un piccolo falco
piumato con neri colori
si trova a volare sul solco
di tanti altri animi scuri,
e teme l’immensità di un
cielo che gli porta rancore,
ma lo sfida e lo scruta lassù,
senza temerne il terrore.
Un bambino viziato chiama
gridando: “Verità! Verità!”
ed egli ne placa la brama
mentre docile plana fin là.
Si posa sul braccio disteso
del bimbo che guarda e sorride,
gli cala un cappuccio sul viso
e nell’accecarlo ci uccide.

giovedì 30 marzo 2017

黑。

Siamo tutti morti. Morti, morti viventi, zombie, scheletri, cadaveri putrefatti che camminano, si muovono e tentano di sfuggire al decadimento del proprio corpo. La morte è una carogna che ci sta sempre dietro con la falce in mano, pronta, docile e addomesticata come la nostra ombra, inarrestabile e irraggiungibile come il sole. Ogni tanto uno se ne va, così, o più semplicemente si ferma, e noi lo osserviamo cadere. Piangiamo. Non c’è nulla di più naturale. Piangiamo per chi si ferma e non per chi persevera in questa orribile putrefazione. Se poi ci era vicino, tanto peggio per noi: piangiamo ancora di più, e tutti ci guardano e ci offrono una spalla su cui piangere, e piangono con noi, ed improvvisamente tutto è un pianto, e anche la morte piange, ma la sua falce ride. Piangiamo per chi si ferma e poi torniamo a muoverci. È questa la cosa più orribile: il movimento. Quando uno è triste, quando davvero sente nel cuore l’angoscia della perdita, il vuoto del dolore, l’ultima cosa che vuole fare è muoversi: resta fermo fossilizzato a osservare il nero che vede in sé stesso. Questo nero è arte, la più pura e la più grande opera d’arte che possiamo produrre. Tutto ciò che facciamo d’altro non conta. Il nero che ci coglie nel profondo dell’animo quando sappiamo che qualcuno si è fermato è l’unica cosa che resiste davvero e che nulla potrà mai scacciare via. Uno sa di aver superato la morte non quando impara a vivere nonostante essa resti lì, lo segua come un’ombra, lo incalzi con quella sua falce ridente, come una luna nel cielo d’inverno che ride di tutte le lacrime delle stelle; uno sa di aver superato la morte quando dentro di lui tutto è nero, tutto è vuoto, non c’è più spazio per nulla. Il nero della morte è un nero che piange e che ride allo stesso tempo, un nero che non si ferma davanti a nulla, che finge di andare avanti ma che ci prende totalmente. Non si esce dal nero. Non ci sono colori nel nostro animo. Non possiamo reagire e non possiamo pensare, non dobbiamo muoverci, non dobbiamo insistere in questo nero di morte che ci portiamo dentro, bisogna solo guardarlo. Guardarlo e morire. Meglio fissare la pienezza del nulla che non attaccarsi all'irresolutezza di un qualcosa. Chi ha visto il nero sa di cosa parlo. È triste guardare gli altri muoversi, ridere, soffrire, amare, fingere, vivere, è triste vedere quel che succede fuori quando dentro non si ha nulla. È triste. È triste e porta sempre alla pazzia quel nero che ci vediamo dentro, quel nulla che confrontiamo al finto tutto che c’è fuori: ma uno che sa, uno che ha visto veramente la sua ombra si chiederà sempre come riescano gli altri a fingere, come riescano ancora a muoversi dopo aver visto qualcuno fermarsi, dopo aver visto sé stessi fermarsi e inginocchiarsi davanti alla falce. Avete mai guardato la vostra ombra farsi piccola e poi svanire sotto il sole incessante del mezzogiorno? Allora l’avrete anche vista ingrandirsi e diventare notte sotto il nero sguardo della sera. Quando, in luogo di una perdita, o quando di nuovo qualcuno si ferma, quando invece di piangere vedete e sentite il nero, e nulla di più: allora saprete di aver veramente passato il limite. Di essere arrivati. Allora potete veramente porgere il collo alla falce ridente della morte e aspettare che cada, e solo allora veramente cadrà. Ma voi non lo vorrete più. Ci sarà solo nero. C’è sempre solo nero. C’è sempre solo arte.

domenica 26 marzo 2017

Pensieri di un ragno

Sarà finalmente pronto a tutto.
Avrà pianificato ogni singolo istante della sua vita per costruirsi una perfezione che gli andasse a genio, e presto avrà finalmente raggiunto i suoi scopi. Non dovrà temere più nulla, anzi, non dovrà nemmeno fare più nulla: le cose verranno da sé, come una mosca rientra all’alveare, ogni cosa seguirà il suo corso e tutto andrà come vorrà lui. Se anche ci saranno dei momenti imprevisti, se là fuori il mondo dovrà uscire dal suo asse e ogni cosa verrà messa in discussione, pure lui rimarrà sempre lì a guardia del suo angolo di perfezione in cui l’apocalisse non sarà arrivato, anzi, avrà solo migliorato le cose. Se una corrente particolare scombinerà i pensieri di tutti, se un uragano di novità creerà il panico tra tutti quei miseri insetti che svolazzano a caso nell’aria, lui resterà saldo nelle sue posizioni, e forse rinforzerà un poco quei punti colpiti dal vento, ma solo se necessario: non dovrà nemmeno mostrarsi debole. E quando la tempesta farà rintanare tutti i suoi avversari, lui si compiacerà nel vederli fuggire terrorizzati e poi riderà delle loro debolezze, senza offrire nessun aiuto, cinicamente forte nella sua perfezione.
Ah, che cosa meravigliosa la vita! Soggiogherà a sé tutti i deboli che gli si avvicineranno, forse senza nemmeno accorgersene, o forse attirati da qualcosa, magari dalla sua forza, dalla sua sicurezza. Avrà tutto quello che gli servirà, senza sforzi, senza fatica: delle linee invisibili, da lui precedentemente tessute, porteranno a sé tutti i risultati che altri faticosamente andranno a cercare, cercando nella propria vita come api in cerca di fiori. Ma lui no, lui i fiori li avrà già con sé: e anche le api, anzi! Tutto quello che dovrà fare sarà rilassarsi e stare attento che la sua costruzione, la sua opera d’arte, quel capolavoro che lo renderà così forte, stare attento che non crolli, non si danneggi, adattarlo quel che basta a mantenerlo immutato e perfetto. Resterà mente e corpo al centro della tela, sentirà ogni minima vibrazione e agirà di conseguenza. Si guarderà attorno con i suoi otto occhi, pur senza avere nessun bisogno di guardare: anzi, sentirà tutto con le sue otto zampe, immobile ma pronto a scattare al minimo cenno di movimento. Quante mosche si impiglieranno così volentieri in quel suo capolavoro che gli darà di che vivere per sempre! Quanti sciocchi insetti troveranno la morte in quel che lui avrà così faticosamente costruito in vita! Sì. Lui, l’unico, grande, inimitabile e onnipotente, saldo in una tempesta di sciagure, legato stretto ai suoi immutabili valori perfetti e assoluti come la pioggia!
 Questo pensava guardando gli altri muoversi ed esplorare un mondo pieno di varietà sotto un sole ridente e primaverile, vedendoli amarsi ignari dell’alone di morte che li circondava. Così andrà. Così deve andare.

venerdì 24 marzo 2017

Avete presente...?

Avete presente quei momenti, ricorrenti in quasi tutte le serate con amici, in cui ci si sente improvvisamente soli e lontani da tutti nonostante si sia in mezzo alla gente? Bene: la mia storia inizia da uno di questi momenti. È una storia qualsiasi, di quelle che accadono senza che nessuno se ne accorga, nemmeno chi ne è protagonista; eppure queste storie accadono, e per soddisfare non so quale sfizio vi racconterò la mia.
 Ero, dicevo, in una di quelle occasioni speciali nelle quali si deve assolutamente uscire e per le quali si manifesta sempre una grande gioia, indipendentemente da cosa si vuole fare realmente, e cercavo di confondere la mia tristezza con l'euforia generica cui nessuno fa caso alle feste. In fondo è facile fingersi felici quando si è tristi: basta esasperare il proprio comportamento a tal punto da rendersi irriconoscibili, così che tutti ti riconoscano per quello che non sei. Non ha molto senso, lo so, ma che ci volete fare? Ero a una festa, quindi ero sballato.
“Questo” dicevo a un mio amico mentre mi versavo l’ennesimo drink “è esattamente il tipo di pensieri che si hanno solo da ubriachi, e che ti sembrano profonde verità, ma solo perché sei ubriaco. Credo sia per questo che la gente crede che l’alcool riveli la verità. Un ubriaco può credere a qualunque cosa e renderla profondissima nella sua mente, mentre da sobrio questo processo è impossibile.” Come al solito vaneggiavo, ma non era importante: nessuno ascolta quel che dici alle feste. A dire il vero nessuno fa caso a quello che dici e fai, tanto che sembra che uno possa venire a una festa e poi starsene in silenzio in un angolo per tutto il tempo, ma se lo fai davvero sei un guastafeste. Devi venire e divertirti, ma non importa chi tu sia né come tu lo faccia. Una volta provai a non andare a una festa cui avevo dato per certa la mia partecipazione: non solo la cosa mi fu rinfacciata a vita, ma tutti mi garantirono che la serata era andata per il meglio, quasi che la mia assenza avesse solo migliorato le cose. Ma naturalmente ero mancato a tutti e alla prossima festa sarei dovuto assolutamente venire.
 Ero avvolto in questa nebbia di pensieri, da cui ogni tanto facevo emergere qualche relitto che condividevo con chi mi stava attorno, quando a un tratto il mio amico mi interrompe e mi fa “La vedi quella ragazza laggiù?”
 Apro una parentesi: mi rendo conto solo ora che parlare di una storia che mi riguarda senza prima presentarmi un minimo rende il tutto un po’ insensato e forse anche noioso. Dunque, sono un ragazzo cresciuto a X, figlio di tal de tali, che ha sempre apprezzato la compagnia di un buon numero di amici. Alcuni di questi miei amici ultimamente si erano messi in testa di trovarmi una dolce compagnia, non so per quale motivo: forse perché tutti loro l’avevano, o perché alla nostra età è consuetudine che uno faccia certe cose, o forse ancora per divertirsi un po’ con qualcosa di nuovo come fanno spesso gli adolescenti annoiati. Dovete anche sapere che io avevo un piccolo vizio, caratteristico di me in particolare, che seguivo da qualche anno a questa parte e che seguo tuttora: ogni volta che salivo o scendevo dei gradini, evitavo accuratamente di calpestare il secondo. Era una di quelle particolarità insensate che rendono unica la nostra personalità, e che ci decidiamo arbitrariamente di tanto in tanto per distinguerci da chi ci è più vicino: per questo due persone identiche possono crescere solo in ambienti separati, e i sosia di noi stessi si trovano sempre all’altro capo del mondo. Solo che all’altro capo del mondo c’è l’Oceano Indiano.
“La vedi quella ragazza laggiù? Potrebbe fare al caso tuo. È simpatica...” -il che è da sempre la classica scusa per appiopparti chiunque: guardatevi da chi vi dice “ho conosciuto un tipo molto simpatico, stasera te lo presento, dai”- “...è simpatica, e ha un segno particolare che credo ti piacerà: quando sale le scale salta sempre il primo gradino.” Ecco, la storia vera e propria in effetti iniziava qui, e credo sia facile da immaginare: la ragazza assunse subito ai miei occhi una luce quasi angelica, e dopo un breve corteggiamento siamo finiti insieme. Insomma, quando poteva ricapitarmi un’occasione simile? Una ragazza bella, intelligente e simpatica che per di più condivideva anche i miei stessi gusti, tanto che anche lei ogni volta saltava un particolare gradino di ogni scalinata! Cosa volere di più? Inutile dire che eravamo in perfetta sintonia, stavamo sempre insieme, condividevamo ogni cosa, a un certo punto del nostro rapporto eravamo a un gradino dallo sposarci e vivere per sempre insieme. Peccato che quel gradino fosse proprio il secondo.
In effetti, per una serie di motivi che non sto qui a spiegare, dopo qualche tempo la ragazza iniziava a venirmi a noia, lei e quella sua strana mania con il primo gradino. Insomma, chi al mondo poteva mai avere un vizio così assurdo? Perchè diamine doveva esasperarmi ogni volta con questa storia che il primo gradino non andava toccato? Come se ci fosse una buona ragione per farlo, poi! Iniziammo a litigare sempre più di frequente e per motivi sempre più futili, smettendo di parlarci per intere giornate. Per farla breve, dopo qualche mese avevo già mandato al diavolo lei e tutto quel che la riguardava, e per dimenticarla, naturalmente, mi invitavano a decine di feste ogni settimana.
 Ero proprio a una di queste immancabili occasioni di festa quando di nuovo mi si avvicina quel vecchio amico che già una volta mi aveva messo nei guai presentandomi quella sciagurata. “Non è andata molto bene con la tipa, eh?” E io lì, ad annuire senza neanche rispondergli mentre mi versavo un altro drink. “Non ti preoccupare; ho conosciuto qualcuno che te la farà dimenticare. La vedi quella ragazza laggiù?” E mi indica una tipa in un angolo, sorridente. “Credo che questa faccia proprio al caso tuo. È simpatica intelligente, e in più ha una particolarità che sicuramente apprezzerai: quando sale le scale salta sempre il terzo gradino.” E io d’improvviso mi giro verso il mio amico, con un sorriso timido che già mi si allarga sulla faccia; guardo la ragazza, i nostri sguardi si incrociano… E il resto è una storia tuttora in procinto di essere scritta.
 Avete presente quei momenti, ricorrenti in quasi tutte le serate con amici, in cui ci si sente improvvisamente soli e lontani da tutti nonostante si sia in mezzo alla gente? Bene: in questi momenti, fatevi un favore, e invece di servirvi un altro drink e andare a festeggiare, guardatevi intorno, sceglietevi un angolo oscuro e inosservato e dirigetevi lì. E restateci.

venerdì 24 febbraio 2017

Poesia

La poesia é come un fiore
marcio, rotto come un quadro
di Kandiskij, strappato come
il volto di una donna rigato
dalle lacrime, in posa
sulla tomba marmorea della vita.

lunedì 20 febbraio 2017

無题

I suoi capelli profumati d'ambrosia ondeggiavano ai soffi leggeri di un vento caldo. Gli piaceva camminare nella città deserta all'ora del meriggio quando tutto il popolo desinava con pietanze semplici e puzzolenti. Lo avevano sempre disgustato le convinzioni sociali che ci fosse un'ora prestabilita per i pasti che ci fosse un'ora prestabilita per le funzioni religiose che la vita di ogni singolo uomo fosse tesa alla creazione di una pulciosa famiglia e poi giungere felici e ormai decrepiti alla dolce morte. Lui no, non voleva e non avrebbe vissuto in questo modo, in realtà non avrebbe vissuto punto. Ma questa è un'altra storia. Lui voleva amare, amare e basta. Al centro dei suoi desideri c'era una graziosa fanciulla dalla pelle olivastra di cui si era follemente innamorato quando l'aveva notata durante la funzione del sabato, gli era apparsa in quel momento in tutto il suo splendore in quel vestitino leggero che lasciava intravedere i seni ancora vergini. Mentre era immerso in questi erotici pensieri accadde qualcosa che non era previsto, nel vicolo buio in cui era entrato come tutti i giorni per soddisfare la sua sete di autoerotismo, c'era qualcuno, sentì un dolore alla nuca e poi buio. Nell'Abisso di sofferenze in cui sprofondò gli sembrò di percepire un vociare confuso, quello che sembrava essere il suo sangue gli otturava gli occhi e l'odore del sudore misto alle lacrime gli flagellava le narici.

Nel buco umido nel quale si risvegliò dopo la tortura si ritrovò stranamente eccitato e in quel momento di solitudine, in cui una morte di stenti incombeva pesantemente sulla sua anima si accorse che l'unica cosa che gli avrebbe provocato piacere erano proprio quegli orrendi fori che gli deturpavano le mani e che tre giorni prima, ora ricordava, gli avevano procurato così tanto dolore.

(Da Neottopoieore)